Turchi - Fumagalli - Paita. La Promozione della Cittadinanza come Responsabilità Condivisa

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L'opera:

La realizzazione di un testo che presenti il Progetto di mediazione civica “Dal conflitto alla mediazione di quartiere. La mediazione come risorsa di inclusione e di accesso all’abitazione”, attuato sul territorio della Valle del Chiampo, implica entrare nel merito di una esperienza pilota che non trova applicazione in alcun altro contesto a livello internazionale, in quanto proposta annoverabile come “prassi” operativa, e non meramente come “pratica” di intervento. Questo Progetto ha inteso proporsi come una sperimentazione che assume una valenza scientifica, tale da rendere possibile che il patrimonio generato non resti confinato alla comunità a cui è stata destinata, ma sia trasferibile ad altri contesti, territori e Paesi.
Infatti la valenza scientifica del Progetto origina a partire dall’assunto che la mediazione, prima ancora di essere uno strumento operativo, costituisce il volano per una svolta di carattere culturale che traghetti l’amministrazione della giustizia da un paradigma di tipo “sanzionatorio” verso l’adozione di un paradigma “riparativo”. Da ciò la necessità che una riflessione che abbia ad oggetto la mediazione vada ad avviarsi in primis sul piano culturale, prima ancora di quello teorico - operativo, in modo da configurare un piano di interlocuzione tra mutamenti culturali e responsabilità professionali.
Il paradigma sanzionatorio e quello riparativo, configurano modi di gestione dei conflitti o controversie nella comunità, che discendono da assunti conoscitivi descrivibili in termini antinomici (ossia che definiscono modalità di procedere alternative fra loro). Entrando nel merito di ciascuna modalità, si individua come il “paradigma sanzionatorio” sia fondato sulla ‘sanzione’, ovvero è la mera applicazione di quest’ultima in grado di ripristinare l’ordine violato. Il paradigma sanzionatorio, pertanto, si fonda sul riferimento al “meccanismo della sanzione” (per quanto applicato da un terzo, il giudice) , per cui si interviene sul conflitto o controversia (sia essa in ambito penale e/o civile) per ripristinare una condizione iniziale che è stata violata senza considerare le parti come risorsa (la vittima soprattutta non trova alcuna collocazione, è una voce completamente assente). Si dà così che il successo della risoluzione del conflitto/controversia è dato dalla corretta applicazione di una norma.
Diversamente, l’applicazione di un paradigma di tipo riparativo, implica che, l’autore della violazione della norma, la comunità ed anche la vittima, ossia tutte le parti implicate nel conflitto o controversia, siano considerate delle risorse e dunque chiamate a gestire il conflitto o controversia stesso, secondo un assunto di responsabilità nella generazione, nella composizione così come nel mantenimento della risoluzione. All’interno di un paradigma di giustizia riparativo la “riparazione” non si riferisce al ripristino di una condizione ideale/iniziale, ma ciò che viene ‘ripristinato’ è la possibilità che le parti assumano su di sé la responsabilità di quanto è accaduto, della violazione avvenuta (anche la vittima trova “voce”, rappresentando fonte di richiesta e di soddisfazione, così come di azione diretta). Pertanto, il successo della “riparazione” è dato dal concorso di tutte le parti, rispetto al governo della gestione autonoma del conflitto o controversia che le ha viste coinvolte.
Storicamente, a partire dai movimenti che hanno posto l’esigenza di tale sfida culturale, si è posta sempre maggiore attenzione alle conseguenze e al nocumento che la dichiarazione di controversie o conflitti produce rispetto a tutte le parti che direttamente o indirettamente risultano coinvolte. I flussi migratori, la segmentazione sociale, la richiesta da parte della comunità di sicurezza, unitamente agli aspetti critici (organizzativi e gestionali) che incontrano il sistema di giustizia e le agenzie di controllo del territorio nel dirimere, con gli strumenti disponibili (prevalentemente di tipo “sanzionatorio”), situazioni altamente conflittuali (sulla cui regolamentazione incidono non solo le norme giuridiche ma anche le scelte individuali), hanno riportato in primo piano la necessità di sperimentare strategie altre da quelle consolidate, ovvero strategie in grado di generare il coinvolgimento di tutta una comunità.
Nell’ambito di tali strategie la mediazione assume un ruolo elettivo, in quanto è lo strumento operativo che è specificamente dedicato alla generazione del dialogo tra parti in conflitto/controversia a prescindere dall’ambito e dalla gravità. La mediazione pertanto costituisce lo strumento in grado di promuovere, favorendo un ruolo di ‘cittadinanza’ inteso in termini di “responsabilità condivisa”, l’emersione di un paradigma “riparativo”. Inoltre l’adozione della mediazione risulta ancora più rilevante in quanto strumento in grado di interferire rispetto ai processi di “delega” attuati da parte della cittadinanza nei confronti del sistema dei servizi. In grado, cioè, di generare una compartecipazione da parte della cittadinanza rispetto a quello che accade nella vita della comunità, divenendo in tal modo strumento elettivo per generare coesione sociale. Infatti, i processi di delega, attribuendo alle Istituzioni l’individuazione di soluzioni di composizione dei conflitti/controversie, solitamente non danno corso a esiti soddisfacenti per la cittadinanza. Questo accade in quanto le soluzioni individuate risultano generalmente ‘imposte’, poichè sono generate dall’ ‘esterno’ e non dall’ ‘interno’, comportando così che la comunità rivesta un ruolo di marginalità nei confronti di quanto comunque la riguarda. La mediazione pertanto si inserisce nella comunità come strumento operativo che risulta in grado di far dialogare le parti e concorrere, in tal modo, a rendere più efficaci le risposte del sistema dei servizi del territorio, poichè non risultano meramente delegate, bensì sono concertate con la cittadinanza, innescando così un “circolo virtuoso” di competenza sociale.   
Ora, siccome il paradigma di giustizia che storicamente ha connotato le modalità di amministrare la giustizia è quello sanzionatorio, la mediazione è uno strumento che si può porre come altrenativa al fondamento conoscitivo da cui originano le modalità operative con cui attualmente viene amministrata la ‘giustizia’. Da ciò si rende necessario che l’uso di tale strumento vada inserito entro una ‘filiera conoscitiva’ coerente con gli assunti stessi del paradigma “riparativo”. Per cui l’intervento di mediazione, in qualità di strumento operativo elettivo del paradigma riparativo, o riesce a realizzare un intervento che risponde a tali assunti, e, quindi, concorre alla realizzazione del paradigma stesso, oppure, laddove non riesca a renderli operativi, diviene elemento che depotenzia in partenza la portata culturale del passaggio ad una giustizia di tipo riparativo.
Ecco perchè, il Progetto oggetto della presente trattazione, si colloca in un preciso orizzonte scientifico/metodologico che, fornendo gli elementi di cornice all’interno della quale si produce conoscenza, rende disponibili indicazioni (adeguate e rigorose rispetto allo statuto epistemologico del particolare oggetto di intervento), riguardo alle prassi in grado di rispondere efficacemente alle esigenze istituzionali per le quali la mediazione nasce e opera, nonché di sostanziare tale strumento secondo precise specificità teorico-operative.
Ed ecco anche perchè, è presente in questo testo, una corposa riflessione epistemologica. Infatti quest’ultima, proprio per lo statuto epistemologico del particolare oggetto di intervento della mediazione – il conflitto/controversia – si rende necessaria, in quanto molta parte delle proposte teorico-operative, in questo ambito, lo intendono come effetto di una causa. Tale presupposta causa, rosulta di volta in volta mutevole, a seconda della particolare adozione teorica di riferimento (ad esempio, il conflitto come effetto di “disfunzioni” a livello comunicativo oppure come ‘effetto’ di caratteristiche intrinseche, siano esse biologiche, psicologiche, ecc., attribuite alle parti, siano esse individui, organizzazioni o comunità in termini ampi) e, pertanto, prospettano di intervenire sulle ‘cause’ pre-supposte del conflitto o controversia. Tali proposte teorico-operative scambiano il conflitto o controversia con un ente fattuale, un ‘oggetto’ empiricamente rilevabile, dimenticando che non si tratta di un ‘fatto’ ma di un ‘conosciuto’ che origina dal ‘modo di conoscere’ (tale che cambiando ‘modo di conoscere’ cambia il ‘conosciuto’ stesso), e operano così scivolamenti conoscitivi impropri. Si fa ricorso cioè, ad un modo di conoscenza che risulta adeguato esclusivamente rispetto ad ambiti di indagine che rispondono alla condizione di individuare enti-fattuali e legami causali (empirico-fattuali) tra questi (sarebbe confondere la catena del DNA come la causa del dito che sto usando per pigiare i tasti della tastiera del computer; i geni che compongono il DNA non sono un ente ma sono il frutto di interazioni fra elementi e generano il dito, senza geni non avremmo dito; quest’ultimo, che possiamo considerare un fatto, imprime un forza che è la causa della pressione sul tasto, senza dito potremmo avere comunque la stessa pressione sul tasto).

Ora, il conflitto o controversia, ha lo stesso statuto dei geni, ossia non ha statuto di oggetto ‘fattualmente’ inteso, e, all’interno di questo Progetto, è inteso come generato dal “processo dialogico” che origina da un certo impiego del linguaggio con valenza pertanto di tipo discorsivo. Tale fondamento epistemologico, offre un supporto di tipo metodologico-operativo, assai “forte”: essendo il conflitto o controversia una configurazione che scaturisce dall’utilizzo di certe produzioni discorsive, è “per principio” sempre modificabile. Ciò implica che, il conflitto/controversia, non essendo una ‘cosa’, bensì una configurazione discorsiva (un modo di conoscere), risulta modificabile, ovvero, se cambia il processo discorsivo (leggi il modo di conoscere), si modifica anche ciò che tale modo di conoscere crea in termini di conseguenze pragmatiche, ovvero ciò che le parti definiscono reale, ciò che definiscono “conflitto/controversia”. Da qui risulta che una lite condominiale, oppure una controversia tra lavoratore e datore di lavoro o un contenzioso tra un quartiere e l’amministrazione pubblica, anche laddove si siano consolidati nel tempo e abbiano ad esempio creato delle conseguenze in termini di percezione di insicurezza dei cittadini, possano essere comunque sempre gestiti e modificati nei loro aspetti pragmatici. Si tratta dunque, intervenendo con gli strumenti operativi fondanti il Progetto in oggetto, di modificare il modo di conoscere (la configurazione discorsiva) impiegato dalle parti. Ossia si tratta di modificare quanto promana da un paradigma di giustizia di tipo sanzionatorio (di ricerca del ‘colpevole’, della ‘ragione’ e del ‘torto’ e dunque della ‘sanzione’ per ripristinare l’ordine infranto), traghettando la comunità verso l’adozione di altri modi di conoscere che siano emanazione dall’adozione di paradigmi di giustizia di tipo riparativo (ovvero di ricerca del ‘contributo’ possibile, di anticipare le ‘conseguenze’ di quanto sta accadendo per ciascuna parte coinvolta e del riferimento a obiettivi comuni di tutta la collettività anziché specifici delle parti).
Il Progetto oggetto di trattazione di questo testo, nasce da una esplicita esigenza degli amministratori locali delle comunità dell’Ovest vicentino, di far fronte ad aspetti critici derivanti dai flussi migratori e dalla crisi del comparto produttivo che ha interessato recentemente il territorio di riferimento. L’Università degli studi di Padova, nella sua declinazione come Master in mediazione, è stata individuata quale interlocutore per la realizzazione e il coordinamento scientifico di una iniziativa che ponesse al centro dell’intervento la sinergia tra tutti gli interlocutori del territorio. L’Accademia ha dunque offerto il suo contributo sia sul piano teorico che gestionale, mettendo in campo l’applicazione di un modello tecnico scientifico denominato “dialogico”, che si pone come adeguato allo statuto epistemologico del conflitto/controversia sopra descritto. Questo per fare in modo che, nella fattispecie, la promozione della cittadinanza non rappresenti soltanto il risultato finale a cui tende il Progetto di Mediazione civica, ma anche la modalità attraverso la quale viene costruito questo stesso risultato.
L’articolazione del progetto concepisce la comunità accogliente e la comunità migrante come capisaldi del progetto stesso. La prima è quella di chi, nel corso temporale dell’abitare lo stesso territorio, ha generato le regole del vivere sociale. Ovvero, in relazione agli aspetti critici che storicamente insorgono in una comunità, questa genera di volta in volta, modalità di gestione degli stessi che, nel corso del tempo, divengono regole e convenzioni tacite o esplicite di governo del tessuto sociale. In seguito, la comunità migrante porta le proprie differenze come patrimonio per incrementare la responsabilità e la valorizzazione del territorio nel quale si abita insieme. Lo scopo del Progetto è quello di favorire la nascita di una realtà (la cittadinanza) che sia frutto del concorso di tutti, generata sia da chi ritiene di possedere regole definitive - come potrebbe essere per la comunità accogliente - sia da chi, come migrante, porta le proprie regole, credendo che queste siano immediatamente trasferibili e spendibili nel territorio che si trovano ad abitare. Solo con la nascita di questa realtà, che definiamo terza in quanto non appartiene in maniera esclusiva ad alcuna delle parti che compongono una comunità, chi abita lo stesso territorio, a prescindere dalla provenienza, ne potrà essere considerato cittadino. Il progetto, perciò, delinea un obiettivo, a partire dal quale, concorre alla generazione della cittadinanza per chi si definisce (ed è definito) caratterizzato da appartenenze (per senso comune e dunque fallacemente) escludentesi: il serbo con il croato, il musulmano con l’ortodosso, la lingua cinese con quella italiana, adottando una ottica per cui la cittadinanza non è più intesa solo e soltanto come fruitore di servizi ma come promotore delle strategie di gestione degli aspetti critici (nonchè dello sviluppo) della comunità in cui si vive e abita.
Questo Progetto intende, pertanto, porsi come occasione di sperimentare il contributo che la mediazione può offrire alla comunità, andando a rispondere sull’effettiva portata culturale di questo strumento, ovvero attestando in quale misura l’attuazione di un progetto di mediazione civica sia risultata efficace, nonché quali siano stati i risparmi in termini di costi da sostenere e i benefici derivanti dalla sua applicazione. Da qui la particolare valenza che nella presente trattazione viene data alle metodologie di valutazione del Progetto, nei termini non solo della responsabilità assunta nei confronti del territorio specifico dell’intervento, ma anche della prospettiva di rendere trasferibile altrove il patrimonio che nella Valle del Chiampo si è generato.
Questo lavoro attesta come sia possibile coniugare la ricerca di base, secondo le prospettive più innovative, e l’applicazione operativa efficace nella comunità civile. Si evidenzia dunque come, anche in campo psico-sociologico, sia possibile rispondere ad un criterio di utilità sociale.

 

Principale curatore:

Gian Piero Turchi, Professore Associato presso l’Università degli Studi di Padova, è docente di Psicologia Clinica, di Psicologia delle differenze culturali e clinica della devianza ed anche di Psicologia delle Tossicodipendenze oltre che di Psicologia della Salute, svolge attività di supervisione e progettazione nell’ambito delle politiche sociali della salute per enti ed istituzioni sia pubbliche che private.

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